PERCHÉ IL GLADIATORE NON È IL SOLITO FILM EPICO O REAZIONARIO
Firmato da Ridley Scott insieme ad una crew straordinaria, IL GLADIATORE non è un film qualunque del suo genere. Neanche un semplice grande classico e cult del genere. Non solo.
Oltre al carisma di Russell Crowe, Joaquin Phoenix, Richard Harris, Connie Nielsen, alla regia di Ridley Scott, alla sceneggiatura, ai dialoghi profondi e poetici, alla colonna sonora... Per parlare di questa pellicola seriamente, smettendo per un attimo di esaltarla senza specificare o di sminuirla con degli stereotipi, sarebbe utile dissezionarla.
Questo non è del tutto possibile, ma proviamo ad estrapolare come si deve alcuni elementi e valori in gioco. Partendo dal testo, dalla "pasta" del film.
Il cinema è un'arte audiovisiva, fatta di un linguaggio sincretico, che combina audio-video-scrittura. La prima scena, che apre la sequenza della battaglia, com'è giusto che sia anche per i film più d'avanguardia, deve dare il senso di tutto il film. Il gesto poetico di toccare le spighe di grano, simbolo della semplicità, della terra (di casa, di "Massimo il Contadino", come verrà citato più avanti) e della casa stessa, si abbina ad uno sguardo incantato della natura, da parte di Russell Crowe, verso un passero. Il decollo viene seguito con un sorriso, finché gli occhi non ricadono sul campo di battaglia. L'espressione cambia. Siamo in Germania, in guerra per conto dell'Impero Romano. E tutto questo suscita in Massimo Decimo Meridio un senso di concentrazione, di turbamento (seppur con fermezza), di determinazione. Ma questo avviene DOPO la GIOIA E L'INCANTO del pensiero rivolto alla casa e alla natura.
Già qui comprendiamo che il generale non combatterà per la gloria personale, per il potere, per il gusto di essere violento, per divertimento. NESSUNA DI QUESTE RAGIONI, a differenza di quello che vediamo in tanti blockbuster in cui l'eroe mostra un sorriso sprezzante per l'azione, per l'uccidere per puro testosterone esibito.
Massimo è un simbolo di virilità perché va incontro alla battaglia con coraggio. Lui è un leader. MA NON AMA FARE LA GUERRA. Come dirà a Proximo, "tanto basta".
Quando raggiunge le fila del fedele esercito, tutti i soldati sono rappresentati con grande umanità. Nei loro occhi si vedono certamente le dinamiche di gruppo che sono nocive in tanti aspetti della società, ancora oggi. Ma si vede soprattutto la loro paura, la loro sporcizia e la loro stanchezza nel fare quello che all'epoca era semplicemente il loro lavoro. Soldati al servizio di qualcosa di più grande. Non tanto nel senso idealistico del termine. Perché Massimo e i suoi credono nell'ideale di Roma, ma fino a che punto? Ci arriviamo.
Massimo parla con il suo comandante e si scambiano consigli sulla battaglia. In realtà, è concentrato sul dolore che tra poco sarà. Sembra quasi in preghiera. Quinto, dopo aver visto la testa mozzata del messaggero romano di ritorno dal rifiuto dell'ultimatum per la resa, dice: "Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto". Massimo, che non è un fascista, né un insensibile, risponde: "Tu lo capiresti? Io lo capirei?". Massimo prova EMPATIA e RISPETTO per un popolo nemico che potrebbe essere uno qualsiasi. Crede che quel popolo sia incivile per usi e costumi, ma lo rispetta nella dignità umana e si pone una domanda immedesimandosi nel PUNTO DI VISTA AVVERSARIO. Crede che Roma sia "la luce", per ora, come dirà a Marco Aurelio. Tuttavia...
Una delle forze di questo film è il continuo mettersi in discussione di Massimo. La sua umiltà. Contrapposta, chiaramente, alla superbia di Commodo, il principe e primo erede.
Marco Aurelio, al termine della battaglia, ha uno sguardo disperato, come se si rendesse sempre più conto che ogni vittoria sul campo è una sconfitta etica. Rende onore a Massimo, ma con lo scopo di affrontare un discorso ben più complesso di un semplice elogio. E l'arrivo di Commodo, interessato solo al suo cavallo di fronte all'annuncio dei tanti feriti, il suo voler parlare con la saggia e diplomatica sorella Augusta Lucilla di ciò che farà da imperatore (certo di avere già il potere), è l'emblema dello "schieramento" dei valori in gioco in tutta la storia. Chiama Massimo "fratello" in modo ruffiano, il generale risponde formale "principe", poiché FUORI DALLE LOGICHE DEL POTERE POLITICO.
Veniamo al dialogo tra Marco Aurelio e Massimo, che dà il via alla sequenza legata al discorso sul futuro politico di Roma. Bisognerebbe leggerlo parola per parola e vederlo bene. La regia è impeccabile. Marco Aurelio ha confessato a sua figlia e principessa Lucilla la stima nei suoi confronti ("se fossi stata uomo, che grande Cesare saresti stata" è una frase estremamente progressista, perché prende atto, senza negare la realtà sociale dell'epoca, della capacità di una grande donna di essere MIGLIORE DELL'EREDE AL TRONO). Ora deve trovare una soluzione facilmente accettabile per il popolo e giusta per esso. RESTITUIRE IL POTERE AL POPOLO PER MEZZO DEL SENATO E DELLA REPUBBLICA. Prima mette alla prova Massimo, il quale crede in Roma perché si fida del suo sovrano. Con umiltà e devozione. Massimo è un uomo semplice, non particolarmente istruito, ma non stupido. Quando Marco Aurelio fa autocritica, si riconosce come un ennesimo TIRANNO e dimostra a Massimo di non essere mai stato a Roma, di non aver mai visto la sua CORRUZIONE, il generale si zittisce. Massimo ha parlato di Roma in maniera del tutto teorica. Ma quando descrive ciò a cui tiene davvero, ovvero la sua famiglia, la sua terra, i suoi animali, descrive con sentimento e poesia la sua VITA QUOTIDIANA. Aurelio, che gli ha proposto di parlare "semplicemente, da uomo a uomo", lo invidia. Massimo combatte per lavoro, per onorare gli dei e la sua vita, la sua famiglia e per poter tornare da loro. Non per EGO o PIACERE. L'onore per la propria vita e per gli dei attraverso una certa etica è una cosa non facile da comprendere per noi oggi. Si tratta di qualcosa di profondamente antico.
Nessuno ha mai dato a Odisseo del reazionario. Mentre la figura di Achille è decisamente più devota alla guerra in sé per sé e alla propria persona. Si interroga sul senso della guerra solo in un momento in tutta l'Iliade, dopo la morte di Ettore. Agamennone è un dittatore, un amante della conquista, del potere. Massimo Decimo Meridio vuole tornare a casa e, dopo aver rifiutato una prima volta il potere di fare le veci del sovrano, come traghettatore verso la REPUBBLICA, ne comprende l'importanza e decide di rifletterci, per rispetto della VOGLIA DI REDENZIONE DI ROMA e perché è la cosa GIUSTA da fare.
Dopo averne parlato con Lucilla, la quale vede nei suoi occhi la sofferenza di un FIGLIO, seppur "acquisito", Massimo deve fare i conti con la realtà: Commodo ha preso il potere.
Commodo è la nemesi per eccellenza: per le poche attenzioni avute da Marco Aurelio ("le tue mancanze come figlio, sono il mio fallimento come padre" riconosce l'imperatore) e per un irrefrenabile e folle desiderio di distruggere e di comandare, il principe ode dal padre di non essere più il prescelto. Ma non si concentra sulla verità, ovvero la necessità di RESTITUIRE ROMA AL SENATO, no. Di quel discorso, ha compreso solo "Massimo sarà al posto mio", senza neanche comprendere il senso della politica. Del SERVIRE I CITTADINI. Per questo lui è lò'antagonista per eccellenza, un DITTATORE, un TIRANNO, un AMANTE DELLA VIOLENZA e un VISCIDO CORROTTO.
Per questo, come avveniva all'epoca, Massimo deve rivalersi e usare l'esercito. NON COME REAZIONARIO, MA COME RIVOLUZIONARIO. COME DIFENSORE DELL'ISTITUZIONE DELLA DEMOCRAZIA, MINACCIATA DA UN TIRANNO. E PER DIFENDERE LA PROPRIA VITA DALLA MORTE E DALLA PERSECUZIONE.
Da qui in avanti il cammino dell'eroe. Che comincia come una fuga per la sopravvivenza. Procede verso la vendetta, desiderio consapevole. E si evolve in altro. L'incontro con Proximo lo trasformerà da morto vivente che non ha più interesse nell'onorare il corpo e la vita a combattente spregevole. Infatti non ha mai ucciso con più violenza del necessario, ma in questa fase si odia. Odia gli Dei. Non deve più nulla a loro e a sé stesso.
Disprezza tutto, anche l'intrattenimento fine a sé stesso: "Non vi siete divertiti!?".
L'intrattenimento può essere uno strumento per raccontare con forza un messaggio, che in questo caso è la decadenza del potere che ha illuso le masse. La condanna della tirannia. Panem et circenses non funziona più. O meglio funziona, ma è polvere negli occhi. Invece si può portare il popolo alla consapevolezza proprio attraverso quell'intrattenimento e quella violenza. Come fa il cinema, ad esempio.
Poi cerca vendetta, torna a combattere con onore per sé e rispettando chi uccide. Ciò a cui il generale che si è tolto il marchio (SPQR, una sigla che in quel momento non rispecchia ciò che è diventata Roma) manca di rispetto è IL POTERE COSTITUITO. NON HA INTERESSE NELLA GLORIA PERSONALE SE NON QUANTO OGNUNO DI NOI, OVVERO PARZIALMENTE. HA INTERESSE NELL'INCONTRARE DI NUOVO FACCIA A FACCIA COMMODO.
Infine, il desiderio nascosto e più profondo. Dopo la disillusione, la vera redenzione anche sua. Perché, come Marco Aurelio, non è devoto a ROMA SIMBOLO DI CORRUZIONE E MORTE. Ma vuole tornare ad essere fedele a ROMA COME SOGNO, PACE, GIUSTIZIA E DEMOCRAZIA.
Ecco spiegato perché Massimo agisce.
Ecco spiegato perché non è un reazionario ma un rivoluzionario.
Ecco spiegata la grandezza e complessità del film (solo un accenno).
Ecco spiegata l'inutilità del sequel.
Si potrebbe andare avanti per tutto il film...
articolo di Giovanni Piretti
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