DOVRESTI VEDERE: THE KING OF COMEDY
THE KING OF COMEDY o RE PER UNA NOTTE (altro che JOKER...)
Sapete, Martin Scorsese è uno dei miei registi preferiti. Ed è anche incredibilmente
popolare.
Così ho pensato di portare all’attenzione un film che fosse appena meno
famoso dei soliti noti.
Non che Cape Fear o Mean Streets siano sconosciuti, ma mi sembravano
entrambi ottimi candidati. Poi ho deciso di rivedere un film che mi colpì
poiché strettamente correlato al Joker di Todd Phillips, tanto che ne ho già
parlato...
Dovresti vedere…
THE KING OF COMEDY
Rupert Pupkin è un comico esordiente in cerca di un’opportunità per
sfondare. Ma non una qualunque. L’autore, interpretato da un brillante e
duttile Robert De Niro, vuole incontrare il suo idolo di una vita Jerry
Langford (Jerry Lewis) per candidarsi a partecipare al suo show televisivo. Il
tutto con la collaborazione dell’amica (o sorella?) Marsha (Sandra Bernhard),
anch’essa ossessionata dal conduttore. I due faranno di tutto per ottenere una
chance per sentirsi finalmente considerati e realizzati…
Continua il sodalizio con il feticcio Bob De Niro. Si torna nella città
così sporca e allo stesso tempo così lucente di Scorsese e sempre ben mostrata
e immaginata dal regista nato e cresciuto proprio a New York.
Nel film del 1982 vediamo una incredibile descrizione ed evoluzione di un personaggio che, emarginato dalla società e con crescenti disturbi, cerca di fare ciò che facciamo un po’tutti: puntare a diventare qualcuno, qui attraverso la notorietà, e a realizzare i nostri sogni. La sensazione di abbandono, di angoscia che genera un tipo simpatico, un tipo qualunque sotto certi punti di vista, è incredibile. E le sue illusioni che si infrangono e che la volta dopo crescono anziché diminuire per poi infrangersi di nuovo, ci confondono e stordiscono, ci fanno ridere e allo stesso tempo ci deprimono.
Vi accorgerete, in un momento rivelatorio e agghiacciante, della situazione disperata del protagonista, che ammette e racconta i suoi traumi da sempre fonte primaria per le stesse fantasie e soprattutto per il suo repertorio artistico. A cosa lo porterà? Cosa sono in grado di scatenare l'ego spento e il fanatismo?
Ma non abbiamo un film didascalico o che vuole teorizzare con pesantezza sui drammi della società, sul rapporto tra realtà e finzione, sull’importanza dei media nella percezione della vita vera, sull’uso dei media per ottenere popolarità… No. Te li MOSTRA. Tutto ciò avviene, ma in maniera così sottile, così implicita e così fine, come ci testimoniano alcune sequenze più o meno surreali legate da un montaggio più narrativo e pacato (rispetto al solito esuberante Scorsese). Dubitiamo. Non è difficile capire davvero cosa stia accadendo, ma quel dubbio comunque ci attraversa il cervello e ci fa maliziosamente considerare il tutto sotto vari punti di vista.
La ragazza di colore da cui è attratto Rupert è l’ennesimo traguardo
irraggiungibile, troppo bello per essere vero. Ma davvero mentre registra il
materiale viene rimproverato dalla madre o è l’ennesimo strascico di un trauma
che ricorda la sofferenza e spiega il totale fallimento di quest’uomo?
Non è importante.
È importante riflettere sulla forza del film, che alla prima visione
letteralmente ci trasporta e coinvolge sempre di più, ci infastidisce, ci fa
prendere le distanze e allo stesso tempo ci fa immedesimare.
Alla seconda ci fa addirittura soffrire, ci fa notare il climax di tensione
perfettamente costruito, ci mostra una versione originale, assurda e al
contempo credibile della follia.
La regia sembra imitare un po’ lo stile televisivo essenziale per
avvicinarsi al contesto. L’uso di emblemi di emissione e ricezione a livello
enunciativo e narrativo, come le citazioni allo show di Jerry Lewis con questi cartelloni che
ricostruiscono lo studio televisivo con tanto di ospiti e pubblico, l’uso di
inquadrature nel formato televisivo che rendono l’idea della diretta TV, sono
un grande esempio di intertestualità. Ci ricordano a tratti “Quarto Potere di
Welles”, nel mostrare il mostrarsi del film; o addirittura “Blow Up” di
Antonioni, nell’interazione uomo-foto; entrambi in alcune riflessioni nel gioco
autore-spettatore.
Inoltre, ci mostra, sulla falsa riga di “Taxi Driver”, ricostruzioni,
conseguenze e anche fallimenti del sogno americano, come solo i migliori negli
Stati Uniti tentano di fare (in Europa in questo siamo più critici e più
bravi). Ci si può vedere anche una critica, oltre che alla televisione in
generale, che credo sia anche al contempo in parte celebrata, almeno
storicamente e culturalmente, alla degenerazione che nasce da una associazione
tipicamente americana tra arte e profitto, incarnata qui dalle contraddizioni
della figura del divo, della star, in quanto modello di rappresentazione e di
valori e dall’accesso difficile a questa posizione privilegiata socialmente.
Ancora una volta, anche se non vorrei, mi tocca ridimensionare Joker di fronte a questo incredibile film che gli è a dir poco propedeutico. Anche se il protagonista non è affascinante. Proprio perché non è uno stereotipo della pazzia. Proprio perché non è semplice. Pure se non è il solito “valoroso” anarchico.
Paul Zimmerman e Martin Scorsese (che mantiene la tradizione hitchcockiana del cameo) hanno fatto un egregio lavoro di semplice, ma non banale, solo meno formale, di-mostrazione dell'ennesima parabola fallimentare di un americano medio, illuso e deluso dalla realtà raccontata e poi smentita.
Riguardo al monologo sul finale (ennesima scena copiata da Joker), De Niro disse in un’intervista che quello fu uno dei compiti più difficili della sua carriera. E che le battute erano buone, ma non buonissime o divertenti, il che era davvero difficile, come sensazione, da trasmettere.
articolo del 2019, by Giovanni Piretti
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