DOSTOEVSKIJ è un remake di TRUE DETECTIVE? (TORNANDO DAL CINEMA)
Ce lo chiediamo tutti o presto lo faremo. Il film di due atti, pensato e presto distribuito come mini-serie tv Sky Original, è un prodotto molto particolare, un noir poliziesco dalle tinte (e anche tematiche) tarkovskijane.
Ideata, sceneggiata e diretta dai fratelli Damiano e Fabio D'Innocenzo, della "scuola" Matteo Garrone, questa serie (più che film in termini produttivi) cerca di riportare in alto la combinazione di genere e autorialità, ad esempio utilizzando la pellicola 16 mm. Al cinema fino al 17 luglio, la sua comparsata in due atti. uscirà suy Sky entro la fine del 2024.
Ma sembra un remake del concept o almeno della prima stagione di True Detective della HBO (pure le grafiche).
Perché?
Andiamo con ordine.
Finché si trattava de La terra dell'abbastanza o Favolacce, in pochi hanno avuto qualcosa da ridire. Che si trattasse dei temi esistenziali e sociali legati a terre sperdute del Lazio, con un forte uso del dialetto, o della violenza e della rudezza di personaggi e iconografia, niente di male. E qualcuno potrebbe dire: sì, ma anche in America Latina e Dosto (da ora lo chiamo così) ci sono gran parte di questi elementi.
Vero.
Cosa cambia?
Intanto, l'orientamento a livello di genere è più netto. Anzi, direi che si passa ad una quasi emulazione, ad un mixtape degli autori più celebri di quel genere. E poi, si incentra quasi tutta la narrazione su un personaggio e sulla sua "introspezione". Più che altro, sulla sua estetica e sull'esaltazione dell'attore.
Attore. A maiuscola. Elio Germano prima, Filippo Timi poi.
Tanto è vero che l'attore protagonista diventa il centro anche a livello di scrittura. La sceneggiatura si assottiglia, la struttura quasi sparisce di fronte all'immedesimazione e onnipotenza dell'attore.
A sto giro sono state utilizzate una colonscopia e una vomitata.
Filippo Timi (Enzo) è un poliziotto disilluso e tossicodipendente che, nel fallimento di un tentato suicidio, decide di tornare ad occuparsi con il collega-amico Federico Vanni e con una squadra che non lo segue, di un serial killer-scrittore che accompagna le vittime con lettere poetiche, nel senso più "greco" del termine.
L'arte del killer (ora nel senso più "tecnico", "l'artefatto") è assolutamente messa in risalto, ahimè, dall'estetica delle inquadrature dell'incipit.
Non è per forza un male, ma neanche per forza un bene.
L'amico ispettore è ciò che rimane della coscienza di Enzo. Sono i due opposti che, in virtù della violenza vista, perpetrata e sedata degli ultimi vent'anni, si guardano in faccia.
Prima similitudine.
Il killer è un violento con una visione malata ma creativa, questo è un fatto stilistico di molti noir diversi (ed è un fatto realistico), ma anche di T. D.; seconda similitudine.
Il protagonista è un pessimista drogato dai metodi alternativi, che tende a seguire le orme del killer per indole più che per solo interesse nel catturarlo. Non a caso altera le indagini (scoprirete voi come) e si inabissa nelle sue dipendenze per depressione e per utilità. "Esattore" sei tu? Altra similitudine.
Inutile continuare, ma ce ne sono. Riti woodoo, ex orfani, team di poliziotti coesi contro il protagonista... è pieno di riferimenti. Anche a livello di caratteri, di motivazioni, di passaggi, di sequenze. Tipo: Enzo ha una figlia disastrosa, l'origine del suo crollo come individuo socialmente e psicologicamente conforme alle norme.
Anche qui...
Non sono difetti, solo constatazioni.
Cos'ha di "originale" Dosto? Di originale davvero non c'è nulla in nessuna storia. Ok. Ma cosa lo distingue da True Detective?
Cose buone e cose meno buone. Poche.
Tra le buone metterei, senza dubbio, la novità di un territorio sperduto senza necessariamente la connotazione dialettale. I poliziotti ad esempio vengono un po' da tutta Italia e conservano la cadenza senza troppe espressioni chiuse. Forse una correzione forzata, una scelta produttiva? Interessante. Timi parla un italiano perfetto, sembra lui stesso un attore. Aspetta, questa cosa ricorda un po' il narcisismo di Rust, in effetti anche in questo sono simili. Sono istrionici, disperati e amanti delle catarsi. Quindi solo parziale novità.
La pellicola e, in generale, la rappresentazione della quotidiana ruralità della vita di questi posti dell'entroterra, se così si può dire, mi piace. Perché riempie bene i vuoti di scrittura (letteralmente) e racconta il sotto-testo esistenzialistico con le immagini. Meglio delle parole del poeta omicida, che vengono elogiate con una "recitazione" teatrale impeccabile del protagonista e subito sminuite come cumulo di cazzate. Giusto per accontentare tutti.
Sì, sto mischiando le cose buone e le non buone...
Quindi bene le campagne, le case, molto Tarkovskij (gran fotografia). I tramonti e le albe sono continui, come se si fosse sempre in una situazione al limite. Ma non cambia mai nulla.
La prima vera svolta la si vede con un'azione piccolissima (non posso dirla) e con una marea di questi tramonti e campi. E con la storia del rapporto tra Enzo e sua figlia Carlotta Gamba (Ambra), entrambi disfunzionali, entrambi sopravvissuti perenni.
E poi?
La sceneggiatura non esiste per tre quarti (ed è poca per il resto), se non sollecitata da un amarcord di elementi del genere posizionati così tanto in vista (nel momento in cui sono posizionati, s'intende), che viene voglia di chiedersi il perché.
Non è per forza un male. Ma neanche, di nuovo, un bene.
L'evolversi della questione superando la trama può essere un bene, se poi quando torni alla trama non mi rifai lo stesso giochino.
Perfino in un momento di corsa di Timi concitato, seguito con la mdp a mano, in cui stiamo stretti su di lui che corre verso una casa, i registi proprio non hanno resistito a puntare l'occhio della camera sui piedi e a tornare sul volto, con un movimento del tutto autonomo e che ci fa sentire inutilmente (dannosamente) la presenza di uno sguardo narrativo terzo e "onnisciente".
Peccato.
Riuscitissimi i piani sequenza a camera fissa (o a mano, ma fortemente su di loro e senza barocchi ghirigori), in cui Timi e la figlia (ma anche altri) parlano e non comunicano.
Dosto assomiglia pericolosamente a True Detective non perché la è trama simile, ma perché sembra volerne rincorrere la forza. Non è ufficialmente un remake, ma si può quasi considerarlo tale.
Nel contempo, il genere puro c'è, per autonomia o meno. C'è anche una versione degradata e molto realistica della vita delle persone emarginate.
Tutto è affidato alla genialità dell'attore protagonista. Non tutto tutto, il cast principale in generale è fortemente valorizzato. Diciamo che il discorso poteva essere decisamente più complesso.
Perché il problema non è rievocare un genere o copiare, ma lasciare qualcosa attraverso questo.
Ce la fa Dosto a dire la sua sul noir alla T.D.? Non lo so, onestamente. Forse l'originale è più efficace, non solo perché più compatto, ma perché più mirato, più deciso e più ricco di senso nel connubio Significante-significato.
America Latina aveva le stesse caratteristiche: grande attore, grande psicologia del personaggio (grazie all'attore più che alla scrittura). Ma tutto troppo derivativo e semplificato. Amarcord del genere.
Vedremo qualcosa di più dai D'Innocenzo? Sarà una voluta linea editoriale?
In conclusione:
- qualcuno dice di essersi riconciliato con gli autori grazie a questo prodotto. Io dico che il meglio deve ancora venire (lo spero);
- le strade sperdute non sono della Louisiana, ma di un non luogo che non riesce ad essere universale, non in Italia;
- alzare il livello di shock con la violenza non è detto che sia poi qualcosa di più di un'ottima performance sensoriale e degli attori. Anche questo può essere un buon trucco, che rimane tale. Ma il tema degli abusi è molto più forte della rappresentazione estrema di un litigio dovuto ad esso. Come il senso di un colpo di pistola è più importante del rumore spropositato che provoca nella sala. Questo però andrebbe contro l'esaltazione degli attori, primo comandamento dei D'Inno.
La cosa più bella è che le scene di notte sono veramente di notte, e il non vedere, la sottrazione, è veramente molto espressiva. Non è una novità, ma bisogna saperlo fare. Il che comunque valorizza alche il discorso che in un buon noir bisogna alzare e abbassare continuamente il ritmo. Non farlo solo alzare, non farlo solo abbassare. Questa è la giustificazione migliore che trovo ad una ricerca ossessiva di momenti di prolungata esasperazione della "violenza". È un sottogenere, per carità. E in Italia non siamo troppo abituati. Vorrei vedere come lo distribuiranno. Ma, anche questo, significa che è un capolavoro? Non lo penso. La penso come Moretti. Non è mettendoci sul piano dell'esagerazione della violenza in senso estetico che si fa il grande cinema, di genere, d'autore o di denuncia. Nel 2024 mi sembra ridondante. Potrei sbagliarmi.
Certamente almeno si vede la non cura della persona e delle persone e a cosa può portare.
Pochi dubbi sui registi riguardo al saper girare certe cose, molti sul perché lo si faccia e perché si scrivano in questo modo.
Mi chiedo: mi resterà impresso qualcosa di questo prodotto?
In fondo, Tarkovskij (l'inquadratura finale e il mood di tutta la serie confermano), Von Trier (Antichrist è del 2009!), ce li ricordiamo per molte cose. E vengono citati spesso ormai.
di Giovanni Piretti
Sono anche su Letterboxd.
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