RECENSIONE: CIVIL WAR (2024)

CIVIL WAR - Alex Garland,

A24, DNA films



Appare come uno di quei film che David Mamet chiama affermazione del piacere e critica dello stesso, che ti fa vedere una cosa e il suo contrario, di solito per accontentare tutti. Ma semplicemente ci mostra la realtà.

Porta questo concetto all'estremo a livello di linguaggio audiovisivo, utilizzando una colonna sonora a tratti straniante e a tratti talmente realistica, nel suo essere pop di fronte a queste uccisioni, che descrive perfettamente il piacere sadico dell'uomo di fronte alla violenza. Lo descrive anche a partire dall'occhio, dal mirino della macchina fotografica che è anche l'obiettivo della macchina da presa cinematografica e contemporaneamente di un cecchino o di un soldato. Non si limita al descrivere un conflitto più o meno complesso, come un qualsiasi buon film. Sviscera e frammenta, disseziona.


Lee (Kirsten Dunst) è una veterana della fotografia di guerra e da sempre lavora col collega giornalista Joel (Wagner Moura). La ventitreenne ambiziosa Jessie (Cailee Spaeny) e il mentore del New York Times Sammy (Stephen Mckinley) si uniscono al loro viaggio per la Casa Bianca, cuore della guerra civile.



La guerra civile è dietro l'angolo ed è nel DNA dell'America e del mondo e Garland lo sa. Come George Orwell o Spike Lee, Scorsese, Romero (e così via) dei tempi d'oro, ha quello spirito di denuncia che è anche una "osservazione" della realtà. Lo sguardo rinnovato e non più solo metafora stanca, ma viva e svegliata dalla crudeltà del suo significato e del suo essere.

C'è spazio anche per una simbologia e un "artefatto" della composizione della realtà come dimensione delle emozioni; con la nostra ragazzina protagonista che, alter ego della matura e disillusa Lee, si trova in mezzo a dei colori arcobaleno quando fotografa una esecuzione. Forse non per desiderio di pace, ma per senso di amore per l'azione.

È sempre lei che la per la prima volta si alza dopo una esplosione e poggia la mano sulla macchina della polizia lì accanto, dove l'operatore ci mostra la scritta sulla fiancata:


Courtesy


Professionalism


Respect


con lo stacco successivo che ci mostra dei poliziotti che in mezzo ad una marea di cadaveri tra manifestanti e altri poliziotti, non indugiano nel soccorrere prima i colleghi.


"Non c'è nulla che non sia sbagliato, tutti qui siamo sbagliati" precisa Lee, che non ha pietà per sé stessa e, proprio perché si rivede nella giovane Jessie, cerca di non avere pietà neanche di lei (ma non sembra riuscirci).



Dopo la prima metà, non me importerebbe se diventasse uno schifo (impossibile).


Va bene così già. È l'unico film possibile, se si riflette un attimo su cosa è l'America oggi e cosa sarà presto dopo le elezioni. Menomale che c'è la A24.


Ora sono quasi alla fine.


È un film che corre il rischio di essere un po' retorico? Sì

Ma come si fa a fare arte senza rischi...

Supera Conrad, supera il road movie, supera il film distopico o post apocalittico, supera qualunque tentativo di fare un buon film d'azione sfondando le pareti di qualsiasi genere.

Un po' come Romero con gli Zombi sociali, o Coppola con il Vietnam sociale.

Quella roba lì. Ne risentiremo parlare.



Inutile dire che c'è anche una metafora sulle diverse generazioni e sul loro modo di approcciare la realtà, passando dall'azione vecchio stampo con prudenza e conservazione, all'attuale focus e attenzione, fino alla giovanile imprudenza, ambizione e ossessione per l'aspetto mediatico.



Comunque, ti senti una merda perché ti riconosci come spettatore, come regista (o osservatore-voyeur) nel provare tutte le emozioni che provi. Buone e cattive. Nel leggere il piacere per lo spettacolo e per l'adrenalina delle fotografe, così come il dolore per le morti solo quando toccano i protagonisti da vicino.


Poco importa se si perde un po' di realismo nella bolgia finale.

Il potere del cinema prende il sopravvento.

E della spietatezza dell'uomo.

E del nostro guardare.



PS: il dialogo con i due cecchini, appena ripresa la seconda metà, è già un capolavoro.


PPS: "Che americano sei?"



articolo di Giovanni Piretti





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