VICE: SU DICK CHENEY, SULLA COMUNICAZIONE POLITICA AMERICANA E SULLO STORYTELLING

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 Secondo anno di università. Mi piaceva già seguire la comunicazione politica e scrissi questo articolo. Lo riporto qui oggi:

Studiando un po' politica americana (e non) da un punto di vista semiotico, ho trovato questa pellicola un ottimo spunto per parlare di propaganda d’oltreoceano e dell’utilizzo dello storytelling e dei media negli USA; Hollywood, giornalisti e politica hanno certamente un legame forte (e il miglior esempio è probabilmente “Quarto Potere” di Orson Welles) …

Partiamo dal film.

Adam McKay utilizza una formula piuttosto ibrida e originale (come per “The Big Short”) per raccontarci la vita di Richard “Dick” Cheney (Christian Bale), Vicepresidente degli USA durante il doppio mandato G. W. Bush (Sam Rockwell). Appena uscito dalla sala ho pensato: “questo è un mix tra un documentario di Michael Moore e una parodia (con qualcosa dei film sulla mafia)”. Certamente diverso dal classico biopic su W. Churchill “L’Ora Più Buia” (ci torneremo brevemente con un esempio). Infatti, la fedeltà ai fatti storici è apparsa piuttosto evidente e tuttavia l’interpretazione è chiaramente critica e ironica. Addirittura scherzosamente definita nel film stesso, da alcuni, come “liberale” …

Ma la forma di narrazione stavolta ci interessa in chiave politica, oltre che tecnica del film. Per intenderci: ripensando all’analisi semiotica di una storia per comprenderne l’efficacia attraverso criteri da approfondire altrove (narrativo, enunciazionale ed emotivo), riusciamo a percepire con facilità la compatibilità e il sodalizio tra storie come strumento di persuasione e mondo della politica (così come per le numerose arti, l’economia…). Il nostro modus mentale di organizzare il significato ci rende il compito semplice. Dunque, è possibile analizzare la comunicazione politica con questi presupposti soprattutto grazie all’ex presidente repubblicano Ronald Reagan, proveniente (guarda un po’?) dal cinema hollywoodiano.

Molti “trucchi” e molte strategie di propaganda sono ben note consapevolmente o inconsapevolmente: il binarismo esemplificativo si utilizza per qualsiasi contrapposizione di valori, ideologie e schieramenti (classico dei classici: bene e male); l’assegnazione di positività o negatività a determinate cose o situazioni (in semiotica “assiologia”, si riferisce all’aspetto narrativo e in particolare al Soggetto o protagonista di una storia); l’importanza dell’uso di forme linguistiche e persone grammaticali inclusive ed esclusive, ovviamente anche in “testi sincretici”, ovvero produzioni con più linguaggi insieme (verbale – visivo – musicale); la capacità di creare un’ immagine mentale di un concetto o di una situazione sulla base culturale e esperienziale della persona (simile alla metafora, detta frame o sceneggiatura o anche contesto, frutto del nostro ragionare per inferenze).

Ma i migliori strateghi e narratori sono stati quelli che hanno saputo rinnovare e soprattutto unire il meglio della politica premoderna (media tradizionali, il “voto di appartenenza al partito”, la piazza…) con quello moderno (l’uso massiccio di televisione con spot, il “politainment” e gli opinionisti schierati, il “generalismo”, il leaderismo, il “voto d’opinione”…) e con quello postmoderno (internet per informare e per coalizzare, l’interattività, la rivalutazione di stampa e tv…). Reagan e Obama tra i più efficaci in assoluto (e in parte Bush). Esempi negativi sono stati Nixon, per l’approccio e anche per il risultato; Clinton per il tentativo fallito di ricreare ciò che aveva fatto il “presidente divo”, ad esempio cercando di ricreare lo staff di Reagan per la comunicazione e finendo per commettere l’errore del “pensare all’elefante” di Lakoff. Quest’ultimo viene generalmente inteso come il pensare a combattere l’avversario cercando di contraddirlo sul suo campo e seguendo le sue strategie, anziché creare le proprie; un problema tipico dei democratici americani e non…

Dunque, se Nixon esordì con “la stampa è il nemico”, rivolgendosi spesso direttamente ai cittadini in TV e scavalcando o altrimenti monopolizzando stampa e giornalisti il più possibile (non sempre riuscendo e inimicandoseli in realtà), Reagan introdusse lo storytelling e molti degli accorgimenti di cui parlavamo non solo nei discorsi (dagli spin doctors alle spin stories), ma proponendo una sorta di agenda setting, “the line of the day”, dando l’impressione che i media entrassero nel gioco. Il suo gioco. Sfamando la stampa con una lista di informazioni prescelte da cui i giornalisti potevano pescare (e nient’altro), creò una maggioranza silenziosa e fu in grado di vendersi e vendere valori alla folla subdolamente.

E Dick Cheney? Lavorò indirettamente per l’amministrazione Nixon, per Ford (che subentrò a Nixon dopo il Watergate) come Capo di Gabinetto, fu membro della Camera dei Rappresentanti durante gli anni di Reagan, fu Segretario della Difesa con Bush senior, presidente di una ricca e influente multinazionale, Vicepresidente con Bush jr. Cariche piuttosto importanti per essere “l’uomo nell’ombra”.

Il film, dunque, ci mostra come Cheney, ambizioso, gelido (“buono a nulla”), persuasore nascosto, viscido opportunista, in virtù delle sue forti convinzioni e delle sue interpretazioni della legge e del potere, fu in grado di prendere quel tipo di decisioni che provocano contemporaneamente grossi profitti e migliaia di morti.


Un personaggio molto diverso dal Churchill di Gary Oldman, evidente e indiscusso leader, le cui scelte e responsabilità in “Darkest Hour” pesano apparentemente di più, soprattutto per la sua reputazione; il taglio stilistico del classico film storico – biografico sembra riflettere ciò a dispetto dell’impostazione di Vice che ritrae uno “sconosciuto”. Tuttavia, l’intento di smascherare Cheney con la forma dell’inchiesta spazza via le apparenze e anzi accusa Cheney in quanto leader vero e proprio, concentrando l’attenzione sul potere che ha avuto.

Il personaggio di Bale ha Imparato quanto sia importante la segretezza delle informazioni e delle discussioni nella Casa Bianca (da Nixon?), ha imparato come inventare nemici e rivoltare e semplificare il concetto di buoni e cattivi e renderlo efficace emotivamente in tempi di tensione (con Reagan e H. W.?) e ha saputo concretizzare, nella maniera più cinica e pratica, tutto ciò tramite un potere pari a quello del suo presidente G. W. Bush, soprattutto nella questione della guerra in Iraq (oggi lo storytelling di guerra è una pratica funzionale all’addestramento, in collaborazione con sceneggiatori di Hollywood).

Moralmente e legalmente, secondo il regista, il giudizio è chiaro e semplice: Dick Cheney si è macchiato di crimini e ha contribuito alla formazione e all’ascesa di criminali…

Non aggiungo altro. Vi invito a vedere il film e a prestare attenzione al discorso finale, che non rivelo. Quella dei discorsi è una questione lunga...

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ARTICOLO DEL 2020
di Giovanni Piretti



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