TRATTO DA: (ATTORNO AL) FUOCO CONVERSA CON ME: THE LOBSTER, DI YORGOS LANTHIMOS

 

 THE LOBSTER, DI YORGOS LANTHIMOS


LA SCELTA 

All’interno di un hotel tutto sembra calcolato alla perfezione per far funzionare una società in cui le persone devono necessariamente scegliere un partner amoroso per la vita: si cerca la compatibilità, testando gli ospiti con step di reciproca conoscenza, esperienze e sofferenze, restrizioni progressivamente diverse regolate e simulate, ma assolutamente verosimili. La motivazione (se così si può definire…) sta nel fatto che, in caso di esito negativo (o finzione) si viene obbligatoriamente trasformati, al termine del periodo di prova, in un animale a propria scelta. La competizione per non restare single è ulteriormente arricchita da una serie di incentivi sul rispetto delle regole e, soprattutto, attraverso una caccia molto particolare che può garantire un’estensione del tempo di soggiorno nella struttura…

Questo è The Lobster, diretto erede del debutto internazionale (ma non assoluto) Dogtooth – Kynodontas per tematiche e scelte narrative e chiaro “faro” e “apripista” per successivi film (il più recente è The Favourite, in cui ritroviamo parte del cast).

Se la situazione di partenza (la casa e l’hotel) ci ricordano entrambi concetti e figure come il “palazzo di cristallo” e il “Grande Fratello” per la rilevanza del potere e delle “leggi di natura”, The Lobster ha in più, rispetto all’antenato, una evoluzione…

Preciso: una scelta difficile come il compito di parlarne esaustivamente e correttamente, ma di cui vado fiero.

Attraverso personaggi freddi, cinici, rigidi (quelli che provano qualche emozione le esternano comunque con cinismo o brutalità) e apparentemente poco umani, Lanthimos mostra la natura umana eliminandone il filtro delle norme sociali e alterando la versione di “scandalo”. All’inizio tutto appare destabilizzante, perché questi personaggi appaiono innaturali e il loro contesto poco realistico. Invece sostanzialmente gli uomini sono mostrati per quello che sono, seguendo la loro versione più animale; questo perché vengono messi al centro i bisogni primari e le gerarchie di potere in ottica lucida e analitica; i personaggi non sono degli animali, nel senso che sono troppo istintivi, ma sono “umani” in quanto animali dotati di ragione la cui funzione è agire miratamente, come strategia al servizio dei bisogni primari. In questo caso, la prima necessità è accoppiarsi (con successo) per sopravvivere e l’istinto e la razionalità sono uniti dal fatto che legge naturale e ordinamento giuridico coincidono.

In conclusione, “rivoluzione dello scandalo” sta nel fatto che, senza norme sociali, “perbenismo” e buon senso, il contrasto (razionale ed emotivo) tra ciò che riterremmo normale e ciò che invece sembrerebbe assurdo e raccapricciante, in questa analisi lucida, ribalta le certezze quotidiane e rende il contesto politico e distopico credibile, una volta adattati.

Ma si tratta di un film e infatti tutto ciò avviene grazie alla bravura nell’utilizzare certe immagini, poiché i dialoghi sono molto semplici, essenziali. All’inizio si fa fatica ad accettare un mondo del genere; senza essere necessariamente cruente, certe scene sono forti e coinvolgenti, soprattutto quelle più fredde e statiche. Ecco il contrasto. Ogni fotogramma è fondamentale e soprattutto è ricco di significato e coerente col resto del “testo”. Quelle interazioni semplici ma agghiaccianti, che sono una grande veicolo di ciò che non è più socialmente inaccettabile, sono dunque talmente assurde ma talmente inserite nel contesto, talmente coerenti, talmente immedesimanti, che iniziamo a tifare per il protagonista (Colin Farrell), che da vittima della costrizione e della competizione, si adatta e diventa carnefice giustificato.

Qui inizia davvero il film e finisce la premessa. Qui si vede l’evoluzione che dicevo. Si intravede un istante di coscienza ormai stonante e viene fuori la ribellione (se ne potrebbe parlare per ore, considerando le intersezioni tra “politico” e “sociale”, tra scelta di interesse e responsabilità, tra rischio e adattamento…).

Veniamo proiettati nella seconda realtà, contrapposta alla prima, in quanto l’unica regola vera è l’impossibilità di legarsi emotivamente e fisicamente ad un’ipotetica anima gemella. In realtà le limitazioni individuali e sociali sono ancora molte (meno competizione, tuttavia le relazioni sociali sono ancora un problema; meno oppressione politica, ma non vi è certo libertà).

L’uomo in quanto tale, allora, non può che volgere lo sguardo verso ciò che non è in grado di ottenere, non può che desiderare il “di più”. Prima doveva. Ora vuole. E ancora una volta si trova fuori posto, si trova a dover lottare, a non avere pace, a scappare. Forse questa volta per amore, qualcosa di più nobile. O forse si tratta pur sempre di necessità e di natura.

RISCONTRO

Prodotto con soli 4 milioni non decolla al botteghino (18); successo a Cannes. In Italia, ma anche negli USA (la nomination agli oscar è di due anni dopo, di fatto uno, considerando la data della premiazione), arriva tardi e in sordina.


COSA MI PIACE 

L’impronta fortemente autoriale in un film di genere mi piace sempre. Quindi tutto, la scelta è avvenuta dopo quattro visioni. A patire dal cast: Rachel Weisz, Olivia Colman, Léa Seydoux, Ben Whishaw, di cui non ho parlato volutamente per non svelare troppo.

Comunque, ciò che mi piace e che fa riuscire il regista nel suo intento è anche la tecnica di scrittura e di regia e le influenze passate. Una che vedo non soltanto io è rappresentata da Kubrick.

Già abbiamo parlato della freddezza ed essenzialità dei personaggi nelle battute e nei dialoghi, ad esempio. O il distacco e i colori freddi delle immagini che, insieme alle inquadrature fisse e ai movimenti di macchina geometrici, alla prospettiva (tuttavia senza l’ossessione della simmetria), ricordano un certo rigore “alla Stanley”. In particolare alcuni temi, l’utilizzo di uno scenario fantascientifico distopico e soprattutto un certo utilizzo dello slow-motion, mi ricordano “2001 – Odissea Nello Spazio”; a mio avviso, i due film condividono l’uso di questa tecnica per mostrare e presentare personaggi in un’azione clou e che si ripeterà nel tempo, che sarà abituale. Anche nell’uso della colonna sonora credo ci siano delle affinità.

COSA NON MI PIACE

Avrei dato una sbirciata in più alla realtà della città, di cui comunque sappiamo tutto ciò che ci interessa veramente.


SCENA PREFERITA

Tutte, soprattutto quelle di inganno. Però ne scelgo una delle rarissime tenere: quella in cui due personaggi si sincronizzano nell’ascoltare la stessa canzone allo stesso momento nelle cuffiette.


SCENA CHE CAMBIEREI

Nessuna. Forse nel finale il personaggio di Colin Farrell non dovrebbe essere in un luogo pubblico, ma date le circostanze…


CHI VORREI CHE AVESSE GIRATO IL FILM O CHI POTREBBE FARLO

Per i motivi elencati sopra, una versione di Kubrick sarebbe interessante.

Credo che se affidassimo a Sorrentino un soggetto del genere, giungerebbe a conclusioni analoghe. Trovo forti analogie soprattutto con il punto di vista di Le Conseguenze Dell’Amore.

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Se volete conoscere un film ancora più folle, da cui è esploso mediaticamente, tra i festival e i cinema, il genio di Lanthimos, in attesa di Poor Things eccovi il link per Dogtooth: https://amzn.to/3tjS3x4


Ideato, scritto e diretto da Giovanni Piretti (2019)


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